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Claudia Amatruda sarà ospite di LuganoPhotoDays giovedì 17 ottobre per una serata, moderata da Giovanni Pellegri (L’ideatorio USI).
La conferenza di presentazione del libro Naiade è organizzata con il supporto di Fondazione IBSA per la ricerca scientifica e in collaborazione con Associazione Malattie Genetiche Rare Svizzera Italiana.
Durante la serata sarà possibile acquistare il libro Naiade.

Renata Ferri scrive di Claudia Amatruda e del suo libro Naiade

Un libro prezioso, perché la storia è importante. È la storia di una malattia, o meglio di una vita, quella di Claudia Amatruda.
Claudia è una donna giovane e bella, intensa. Ha grandi occhi azzurri spalancati. Quando ti guarda, non puoi fare altro che abbassare lo sguardo, perché il suo è potente. Come lo sono le parole che scandisce con l’accento del sud: nette, precise, essenziali. Non usa aggettivi, non gira intorno alle cose. Ti racconta la sua malattia misteriosa, rara, incurabile, mentre ti fissa calma.
Il lavoro lo ha voluto intitolare Naiade – le Naiadi nella mitologia greca erano divinità dell’acqua, immortali e benefiche nel loro fluire – è questo a cui aspira la Naiade Claudia?
“Sembro una ragazza sana, normale e attiva”: nel testo che accompagna il libro che raccoglie la sua esperienza si presenta così. Tutto vero. Sana lo è, perché è consapevole. Normale anche, perché è capace di prendere in mano un destino difficile. Attiva senza dubbio: ogni giorno combatte corpo a corpo contro un nemico ignoto e invisibile per vivere la vita.

È bello pensare che la fotografia possa salvare la vita. Soprattutto per chi, come Claudia Amatruda, ama l’una e l’altra. E ne è consapevole. L’autrice affronta la malattia e ne trae ispirazione poetica, costruendo fotogramma dopo fotogramma il suo mondo. Al centro, c’è il suo corpo, ci sono porzioni di epidermide e arti contratti nella morsa del dolore. C’è il suo volto, che osserva ognuno di noi senza fare domande mentre attende la nostra attenzione. Ci sono dettagli, molte sedie e corridoi, lenzuola di tanti letti disfatti, di tanti ospedali abitati. E la forma dell’acqua, di una piscina o di un mare in tempesta, che tutto lava e tutto spazza via. Come una contemporanea Naiade, la protagonista rappresenta il proprio corpo immerso, fluttuante, liberato mentre la fotografia diventa strumento catartico per la narrazione dell’esperienza.
Il corpo per la fotografia è una magnifica, ma pericolosa ossessione. Nell’immagine spesso cede alla teatralizzazione o, quando malato, alla manifestazione drammatica del dolore. Amatruda, lo sa, non cade in tentazione. Il volume è attraversato da una poetica sobria, la punteggiatura è delicata. L’autrice non vuole scioccare, neppure gridare. Il suo racconto scorre sottovoce, incede per pochi essenziali momenti. Le immagini floreali e il colore, distillato con cura, segnano il percorso senza sbalzi d’umore. La natura è pura e il corpo ferito e violato si incastona tra le pagine senza mai turbare. Non è pudore. È sensibilità. Attraverso una successione d’immagini, aneddoti fotografici, ci avviciniamo così al senso, tutto autobiografico, di una storia umana da leggere come un romanzo. Claudia Amatruda parla in prima persona, ci osserva mentre ci accompagna nella narrazione. Si spoglia davanti a noi e per noi, le membra nude e inermi attraversano la metamorfosi del racconto fino all’ultima pagina. Autoritratto dopo autoritratto, rende percepibile l’invisibilità del dolore. Con quale vera, ultima intenzione? “La fotografia”, ha scritto “mi sta salvando la vita”. La risposta è tutta qui.

Renata Ferri
3.10.2019